Tozzi, tutto il mistero in un punto e virgola

Articolo di Alessandro Zaccuri
Pubblicato su Avvenire, 21 marzo 2020

Cent’anni fa moriva il grande scrittore senese di “Tre croci”, talvolta accostato a Kafka e che certamente condivide con Svevo e Pirandello un posto di primo piano nella nostra letteratura come esponente del «romanzo sperimentale che ha per fine la poesia»: da due anni è partita l’Edizione nazionale delle opere. Sosteneva che la scrittura deve tendere a un risultato morale che segna e impegna la nostra vita.

La “febbre spagnola” arrivò in Italia nel settembre del 1918, poche settimane prima della fine della Grande Guerra. Continuò a colpire per due anni, provocando oltre mezzo milione di vittime solo nel nostro Paese. Ne morì, il 21 marzo del 1920, anche il trentasettenne Federigo Tozzi, forse il più grande scrittore della sua generazione: di sicuro il più irrequieto e caratteristico, il più originale e profondo. Nel suo caso si è spesso suggerito il paragone con Franz Kafka, all’epoca del tutto sconosciuto in Italia e pure a Tozzi straordinariamente affine quanto a sensibilità e sguardo (le prose di Bestie rivelano coincidenze puntuali con le descrizioni kafkiane di animali). Che Tozzi fosse stato lettore di Dostoevskij, invece, si avverte con chiarezza quando ci si misura con i suoi romanzi più noti, come Tre croci del 1920, dostoevskianamente ispirato a un episodio di cronaca, e Con gli occhi chiusi del 1919, portato sullo schermo nel 1994 da Francesca Archibugi e riproposto lo scorso anno negli Oscar Mondadori. Anche dal punto di vista editoriale, quella di Tozzi è una situazione abbastanza complessa, quasi a dimostrazione della difficoltà di assegnargli un posto all’interno del canone novecentesco. In vista del centenario odierno, per esempio, la Biblioteca Universale Rizzoli ha portato nuovamente in libreria il corposo volume delle Novelle allestito nel lontano 1963 dal figlio di Tozzi, Glauco, e poi integrato con i contributi di Luigi Baldacci e Marco Marchi (pagine 1008, euro 20,00). Originariamente inserito nel progetto di opera omnia varato a suo tempo da Vallecchi, il libro continua a svolgere un’importante funzione documentaria, anche se il criterio cronologico al quale si attiene è ormai ritenuto superato dagli studi più recenti, sulla base dei quali è in corso di pubblicazione presso Storia e Letteratura l’Edizione nazionale presieduta da Romano Luperini e diretta da Riccardo Castellana. Un’impresa avviata nel 2018 con l’edizione critica di Giovani, l’unica raccolta di novelle concepita in vita dall’autore (a cura di Paola Salatto, pagine 430, euro 38,00), e destinata ad arricchirsi nei prossimi mesi con quella del romanzo postumo Gli egoisti, sul quale ha lavorato Tania Bergamelli.

L’Edizione nazionale è un’iniziativa a lungo attesa, che ci si augura contribuisca a superare il ripresentarsi di pregiudizi e valutazioni riduttive che hanno finora ostacolato la conoscenza di Tozzi. Neppure il “Meridiano” Mondadori, curato nel 1995 da Marchi e introdotto da Giorgio Luti, era infatti del tutto riuscito a collocare questo autore nel luogo che gli spetta: in continuità con l’amato Verga, senza dubbio, ma anche a fianco di Svevo e Pirandello, a loro volta testimoni di una “inettitudine” esistenziale nella quale Tozzi introduce una più accentuata e ineliminabile connotazione metafisica. Nato a Siena il 1° gennaio 1883, rimasto presto orfano di madre e altrettanto presto entrato in conflitto con il padre (un contadino divenuto possidente grazie all’abilità negli affari), Tozzi aveva avuto una formazione scolastica accidentata e discontinua, alla quale aveva sopperito con una sovrabbondanza di letture. Fondamentale fu il confronto ravvicinato con gli autori del tardo Medioevo toscano, in particolare con Caterina da Siena, le cui opere Tozzi avrebbe successivamente antologizzato nella prospettiva del “miracolo”. Le lettere di Caterrina divennero così un modello di concretezza stilistica e di intensità spirituale, del quale si avvertono le tracce nella prosa di Tozzi, così impetuosa e frammentata, con quel ricorso al punto e virgola attuato in modo apparentemente arbitrario, ma dettato in effetti dalle esigenze di un’indiscutibile sintassi interiore. Sono pochi, nella storia della letteratura, gli scrittori che intrattengano un rapporto tanto essenziale con la punteggiatura. Céline con i suoi due punti imbizzarriti, forse, e Testori che adopera le virgole per segnalare ogni minima intermittenza del fiato. Non per niente, si tratta di altri due irregolari, scrittori che sfuggono alle convenzionali categorie critiche.

Irregolare, cattolico, poi dimenticato, ebbe una cura maniacale della punteggiatura La sua voce tende al metafisico ma radicato in terra (come Verga)

Alessandro Zaccuri

Dopo un giovanile entusiasmo socialista e una burrascosa infatuazione dannunziana, negli anni della maturità Tozzi aveva concepito con l’amico Domenico Giuliotti il disegno della rivista “La Torre”, organo di una reazione cattolica che rappresentava solo in parte le istanze più autentiche del narratore senese. Più che nelle dichiarazioni programmatiche, il cristianesimo di Tozzi si manifesta nell’osservazione ravvicinata di una realtà drammatica e, insieme, misteriosamente visitata dalla grazia. Esemplare, in questo senso, uno dei più bei racconti di Giovani, “Il croficisso”, nel quale davvero Kafka e Dostoevskij sembrano ritrovarsi per tratteggiare il ritratto della brutta prostituta – segno di «un mondo che Dio non ha finito di creare» – rifugiatasi in chiesa per intrattenere un dialogo silenzio e abissale con Cristo. Approdato negli ultimi anni a Roma, dove fu raggiunto dal contagio, secondo Carlo Cassola Tozzi fu uno degli esponenti più consapevoli di quel «romanzo sperimentale che ha per fine la poesia». Nell’argomento dei suoi libri è sempre riconoscibile il precedente autobiografico (si pensi a Il podere, che rinvia alle dispute per l’eredità paterna, o a Ricordi di un impiegato, nel quale riecheggiano le esperienze romane degli ultimi anni), ma nello stesso tempo è impossibile accontentarsi di questo elemento fattuale, perché Tozzi si spinge sempre più in là, in un territorio nel quale tutto diventa incerto, abbacinante, rivelatore come solo nella mistica può accadere. La scarsa rilevanza della trama, del resto, è rivendicata dallo stesso Tozzi nel breve saggio che dà il titolo a Come leggo io e altri scritti letterari, la piccola raccolta realizzata da Elliot in occasione del centenario e accompagnata da un’ammirata introduzione di Arnaldo Colasanti (pagine 60, euro 7,50 euro). In un certo senso, è un anticipo del volume di Scritti critici già messo in cantiere per l’Edizione nazionale. Più in generale, è un’occasione per smentire l’immagine di uno scrittore nel quale l’istinto sconfinerebbe nell’improvvisazione. Al contrario, anche come lettore Tozzi si dimostra titolare di un metodo personalissimo e rigoroso, che lo porta a operare sul testo campionature serrate, al ritmo di una frase per volta: «Mi piace di gustare qualche particolare, qualche spunto, qualche descrizione, dialogo ecc. Sentire, cioè, come lo scrittore è riuscito a creare». Tozzi se la piglia con la critica troppo accomodante e con gli autori giovani a oltranza, incapaci di diventare adulti, ma ancora una volta il cuore del discorso non sta in questa dimensione polemica, sia pure affascinante. «Quello che scriviamo – avverte Tozzi – non può uscire da noi senza un resultato morale, che concorre a stabilire il valore della nostra esistenza. Quanto più riusciremo ad accostarci alla purezza della nostra individualità, tanto più gli scritti assumeranno un valore responsabile dinanzi al pubblico e al tempo». La letteratura per lui era questo, «un punto fermo in noi; ma non fatto soltanto di noi», come recita la battuta di un suo dramma, L’incalco. Per capirla bene, bisogna prestare attenzione al punto e virgola.